di Pierre Yelen – Ci ritroviamo dopo più di vent’anni. L’incontro è emozionante.
Abbiamo lavorato insieme nel Sahel, per la sicurezza alimentare e la lotta alla desertificazione: giovani, pieni d’energia e con tanti ideali.
Insieme, abbiamo partecipato a conferenze e scritto relazioni, fatte missioni sul campo; abbiamo incontrato contadini e allevatori, donne e giovani, fino alla zona pastorale del Mali, Burkina Faso e Niger, oggi inaccessibili.
Eri un giovane intellettuale quando fosti chiamato dal Presidente Thomas Sankara ad avviare la formazione dei quadri del suo governo rivoluzionario.
“Perché non hai fatto il Ministro, Soumana?”.
“Perché?” mi fa eco col suo sorriso affabile. “Thomas mi aveva definito un borghese utile, tra il serio e il faceto. Non mi sentivo offeso, per questo. Infatti, per un buon periodo sono restato. Mi piaceva dare una mano al mio Paese militante, c’era bisogno d’energie positive, volevamo dare un senso all’indipendenza uscendo dal sottosviluppo … tu conosci bene la storia… “
“Ad un certo punto, però, te ne sei andato, perché?”
“Mio caro petit frère, tu conosci bene i nostri Paesi. Quello che è vero oggi, può essere non vero domattina. Un borghese utile può diventare non più utile e quindi … resta solo un borghese. Nei momenti di conflitto interno, in un percorso che si vuole rivoluzionario, è possibile che un borghese finisca al muro … solo perché borghese!”. Il sorriso diventa una risata, nella convinzione che nel Sahel i processi sociali non possono essere accorciati artificialmente e sperare che sortiscano effetti duraturi.
Lo affermavi senza rancore, con un filo bonario d’ironia ma persuaso di quello che dicevi. Anche in Burkina Faso, d’altronde, aver i capelli bianchi è un lusso per pochi.
Ci siamo rivisti più volte in questi ultimi tre anni. A marzo, non stavi in gran forma ma, alla tua incessante voglia di vivere, avevo strappato la promessa di un viaggio in Italia, per mettere a punto il nostro programma di lavoro. In questa attesa, avevo preparato la mia missione a Ouagadougou, annunciandomi a stagione delle piogge consolidata. Con il tuo solito savoir faire mi avevi mandato un WhatsApp: “il tuo Paese t’aspetta con ansia”.
Ho voluto farti una sorpresa. Il giorno dopo il mio arrivo ti faccio cercare per invitarti a pranzo.
“La notizia non è buona. È spirato questa mattina, in ospedale”.
Non t’ho più visto se non nella tua casa in campagna, al centro di una grande stanza, dove c’eravamo incontrati a febbraio, in una foto in bella mostra appoggiata sulla tua bara.
Il bianco è dominante. È questo il colore per la cerimonia di una persona come te. Fino alla fine mi hai insegnato le tradizioni saheliane. Mi è venuto da sorridere al pensiero che volutamente avevo preferito una camicia scura per venire al tuo funerale.
Ho riconosciuto e salutato tua moglie e due dei tuoi figli. Sapevo che ne avevi quattro … non era così. Avevi ragione quando, tanto tempo fa in un momento di relax, mi ammonisti dicendomi di ricordare sempre che non c’era solo il Sahara come barriera fisica tra la mia cultura e la tua.
“Non ci potremmo mai capire fino in fondo, anche se facciamo lo stesso lavoro, parliamo la stessa seconda lingua, siamo amici e ci vogliamo bene … le nostre radici le nostre tradizioni verranno sempre fuori. Rispettiamole ed utilizziamole come una fonte d’arricchimento reciproco”.
Grazie ancora Soumana. Buon viaggio.